On being human as praxis: violenza, corpo e debito nelle opere di Octavia Butler

Introduzione La seguente tesi nasce per analizzare le opere di una scrittrice che ha fatto la storia, non solo per quanto riguarda il genere letterario che predilige, ma per la vastità di tematiche affrontate, la creatività nel creare mondi immaginari e la capacità di guardare sempre criticamente al presente. La figura di Octavia E. Butler, nel corso della stesura, è diventata una colonna portante, una guida e un faro in una ricerca tortuosa, così come lo sono stati i tre romanzi analizzati: Kindred, la trilogia Xenogenesis e la dilogia Parables. Sebbene l’intenzione di riscoprire e reinterpretare alcune delle opere più interessanti dell’autrice sia stata sempre chiara dal principio, è stata la tematica a trovare me, e non io lei. Il titolo della tesi, difatti, è stato l’ultimo elemento che ho definito, il punto finale a una ricerca che ha preso vita attraverso le pagine dei romanzi e le interviste rilasciate in vita da Octavia. “On Being Human as Praxis: violenza, corpo e debito nelle opere di Octavia E. Butler” è un titolo che cerca di sprigionare l’essenza stessa di questa dissertazione, senza mai perdere di vista il periodo storico attuale. È stato solo dopo aver letto e riletto le varie opere, dopo conversazioni, incontri e analisi fatte sui passaggi dei libri che mi sono resa davvero conto della direzione verso cui voleva andare la mia scrittura. Quasi in maniera spontanea, e seguendo la poetica della scrittrice, tutti i capitoli e i paragrafi protendevano alla risposta di un’unica domanda: come si può essere umani? Fonte incrollabile di sostegno e motivo di grande interesse è stato, senza dubbio, il testo Sylvia Wynter: On Being Human as Praxis, nel quale è collezionata una lunga conversazione tra l’autrice, Katherine McKittrick, e Sylvia Wynter, volta a definire l’essere umano e decostruire quelle categorie secondo cui la storia dell’umanità è raccontata in termini gerarchici e parziali. Il testo si interroga sulla figura dell’uomo che, a partire dal Rinascimento, è diventata la misura attraverso cui classificare tutti gli altri esseri. Katherine McKittrick, per dare avvio all’intervista, si chiede cosa significa essere umani e, soprattutto, come possiamo dare all’umanità un futuro diverso da quello che sembra prestabilito. (1) Tale domanda è essenziale alla giusta comprensione di questa tesi, per cui invito il lettore a notare come la questione dell’umanità si intersechi alla perfezione con ciascuna delle opere di Octavia proposte in questa sede.   1 McKittrick K., Sylvia Wynter: On Being Human as Praxis, Duke University Press, Durham, 2015, p. 9 Il titolo della tesi richiama l’opera di Sylvia Wynter, in specie per la sua analisi del termine being human come prassi e non sostantivo; l’umanità non emerge come una condizione statica, anzi è un processo dinamico, un’azione che si sviluppa e cambia con il passare del tempo. Anche attraverso la lettura delle opere di Octavia Butler diventa evidente il dualismo human being – being human, l’essere umano non è, ma si fa e si costruisce di continuo secondo pratiche e relazioni sociali. Il titolo assume una sfumatura che, pur partendo da queste basi, si differenzia per il suo essere volutamente ambiguo e duplice, in quanto riflette l’intenzione della tesi di andare oltre tale definizione per analizzare come l’essere umano possa ritenersi tale, e quindi preservare la propria umanità, anche in condizioni ostili. Dal pensiero di Sylvia Wynter emerge un essere umano che non può prescindere dalla connessione con due figure: Man1 e Man2. Con il primo termine, l’autrice si riferisce a una categoria inventata dagli studia humanitatis durante il Rinascimento per differenziare il nuovo homo politicus dalla figura di homo religiousus, fino a quel momento al vertice della gerarchia sociale.(2) Nel secondo caso, invece, viene sancita la nascita della figura di homo oeconomicus a partire dal modello occidentale di borghesia, che fa dell’accumulazione di Capitale la propria felicità. Le storie che originano ambedue le figure, non solo definiscono chi e cosa siamo in quanto esseri umani, ma producono anche le categorie razziali del razionale e dell’irrazionale e le asimmetrie che ne derivano. Nel suo testo, McKittrick esprime tale concetto in maniera chiara: These systems and stories produce the lived and racialized categories of the rational and irrational, the selected and the dysselected, the haves and the have-nots as asymmetrical naturalized racial-sexual human groupings that are specific to time, place, and personhood yet signal the processes through which the empirical and experiential lives of all humans are increasingly subordinated to a figure that thrives on accumulation.(3) L’intenzione della scrittrice è di decostruire le categorie che limitano l’esistenza dell’umanità come specie, ripensandola in termini ibridi, per cui non è più possibile classificare l’essere umano come organismo naturale e biologico. Il pensiero di Sylvia Wynter, infatti, mette in discussione le nozioni di umanità, scienza, storia e potere in relazione al dominio del mondo occidentale, che ha modellato e creato le idee circa il significato di essere umani in base alle strutture di potere moderne e al colonialismo. 2 In Sylvia Wynter: On Being Human as Praxis è possibile trovare una lunga analisi dell’essere umano e della sua evoluzione a partire dalla Rivoluzione Copernicana, individuata come momento cruciale per il suo andare contro l’onnipotenza di Dio voluta dalla Chiesa medievale. Per ulteriori approfondimenti consultare il paragrafo Toward the Counterauthority of a New Science in the Global Context of Our Contemporary Crisis- Ridden Times a pagina 13. 3 McKittrick K., Sylvia Wynter: On Being Human as Praxis, op. cit, p. 10 A partire da queste concezioni, la mia tesi ricerca, all’interno di tre opere di Octavia Butler, la definizione di essere umano e il suo significato intrinseco, attraversando tre elementi principali, nonché pertinenti all’idea della riconfigurazione dell’umanità proposta da Sylvia Wynter nel Third Event: la decolonizzazione delle categorie deumanizzanti; il concetto di essere umano ibrido e mutante definito dall’unione tra mythos e bios; e, infine, il cambiamento costante e le trasformazioni radicali che l’umanità attraversa di continuo. Con l’intenzione di cogliere le sfaccettature intrinseche della specie umana, di decostruire la distinzione tra umano e non-umano e di comprendere le responsabilità storiche che gravano sulle spalle della nostra specie, ho analizzato le opere a partire da tre figure ricavate dal testo di Denise Ferreira da Silva, Unpayable Debt: la scena di violenza, il corpo e il debito. Così facendo, mi è stato possibile mettere in risalto che tipo di essere umano emerge dalle opere di Octavia Butler. Le tre immagini risultano fondamentali per analizzare l’atteggiamento umano, mettendo in risalto la sua evidente propensione alla brutalità e all’uso degli strumenti di violenza come mezzo per imporre la propria volontà e superiorità. La violenza, in questo contesto, permette al lettore di avvicinarsi a eventi storici cruciali, quali la Schiavitù e il Middle Passage, che hanno legittimato la deumanizzazione di interi gruppi sociali, spesso motivata da un mero interesse economico. In tale quadro, il corpo non è solo il simbolo della lotta contro l’oppressione o eredità delle violenze subite, ma diventa anche l’elemento centrale che definisce l’essere umano, in quanto in grado di esercitare la propria libertà attraverso il possesso e la gestione del proprio corpo. Inoltre, il concetto di debito, come elaborato da Denise Ferreira da Silva a partire da una riflessione sulla schiavitù e sul colonialismo, è utile per esplorare i vincoli che legano l’individuo a un destino che può essere, talvolta, il risultato delle proprie azioni, e altre volte, imposto da forze esterne. Se l’uomo sfrutta e rende schiavi i propri simili di continuo, significa che la crudeltà è nella sua natura? Esiste un margine di redenzione e miglioramento o la nostra specie è condannata a ripetere eternamente gli stessi errori? Il cambiamento può davvero rappresentare un nuovo inizio per l’umanità? Queste sono solo alcune delle domande esplorate dalla mia indagine; essa non vuole raccontare soltanto storie di alieni e navicelle spaziali, ma mira a comprendere il ruolo dei vari personaggi nelle situazioni create dalla mente di Octavia. Allo stesso tempo, l’analisi riflette sull’impatto degli esseri umani sulla storia contemporanea e sull’ambiente circostante, con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza della responsabilità etica che ciascuno di noi ha. Per approfondire le riflessioni scaturite circa il ruolo della narrazione, ho utilizzato il pensiero di Hélène Cixous, in particolare nell’opera Tre passi sulla scala della scrittura, dove porta alla luce il potere della scrittura come strumento di resistenza e trasformazione. Secondo l’autrice, la narrazione è un atto di resistenza che prende vita da una scena primitiva di cui non siamo protagonisti, ma pubblico; un quadro che si imprime nella memoria e che spinge a scovare, recuperare e ricordare quello che si vuole seppellire, ciò che fa paura. Ne parla come un segreto, la porta rossa dietro cui non si sa cosa è celato, ma che scuote e agita il respiro. Una morte che permette di avere completa consapevolezza della vita stessa, vissuta pienamente attraverso l’atto della scrittura. In questo modo, le voci marginalizzate possono reclamare la loro dignità ed il loro spazio, come accade nei romanzi di Octavia Butler. In ciascuna delle protagoniste analizzate nel corso della tesi si cela una scrittrice che narra la propria storia a partire da un evento disastroso, un’ombra nera che incombe non solo su di loro come individui, ma su tutta la comunità che rappresentano. In Kindred, l’evento scatenante è la schiavitù, macchia indelebile nella memoria della comunità africana- americana. In Xenogenesis, Lilith sopravvive alla perdita di coloro che ama e del mondo stesso, diventando testimone di un passato quasi del tutto cancellato e fautrice di un futuro diverso. Infine, in Parable of the Sower, Olamina incontra più volte la Morte, costretta a fare i conti con un mondo che ha perso la sua umanità. Sono tutte ragazze che, inseguite dalla Morte, ne sentono il fiato sul collo, si voltano per guardarla in viso e instaurano con lei un rapporto, consapevoli che non esiste vita alcuna senza di essa. Graziate in extremis, esistono attraverso la scrittura e, sulla base della loro testimonianza, è possibile condurre un’analisi ben più profonda del genere umano. La tesi si compone di quattro capitoli volti a conoscere meglio una famosissima autrice, Octavia Butler, fondamentale per il suo lascito nella letteratura. Con il primo capitolo, infatti, anche il lettore che mai ha sentito il suo nome potrà apprezzarne la persona. Seguendo alcune delle tappe più rilevanti nella vita della scrittrice, traccerò un disegno che ne ricordi il vigore, la creatività e la passione, senza però dimenticare quegli elementi che, nella sua esistenza, hanno lasciato un segno indelebile: la madre, la solitudine e i libri. Nel secondo paragrafo, invece, mi occuperò del genere fantascientifico in modo tale da supportare la tesi attraverso una panoramica che consenta la giusta comprensione della poetica di Octavia. L’argomento, inoltre, permetterà un’analogia tra il corpo del testo e quello umano, definito a sua volta dalla divisione binaria di genere (uomo/donna). A concludere, la voce di Hélène Cixous accompagnerà quella della nostra autrice nella descrizione del processo di scrittura, evidenziandone le similitudini e le differenze. Il secondo capitolo si concentrerà su Kindred, un’opera che esplora il tema del viaggio nel tempo attraverso gli occhi della protagonista, Dana. Pubblicato per la prima volta nel 1979, Kindred si distacca dall’essere un semplice racconto fantastico, consolidandosi come un potente strumento per riflettere gli eventi più atroci e traumatici della storia americana. Octavia Butler, attraverso le esperienze vissute da Dana, offre al lettore una meditazione profonda sui traumi legati alla schiavitù, un costante monito sui pericoli dell’oblio storico e sulla possibilità che tali orrori possano ripetersi. Il contributo di Denise Ferreira da Silva assumerà un ruolo centrale, soprattutto in merito alla sua analisi del debito impagabile degli schiavi a partire dalla protagonista del romanzo di Octavia. Dana diventa un simbolo di questo peso ereditario: il suo viaggio nel passato non è solo un’esperienza individuale, ma le consente di creare una connessione con il dolore e le sofferenze provate da milioni di uomini e donne. Episodio dopo episodio, la protagonista diventa sempre più parte di un’epoca in cui la violenza e la brutalità della schiavitù sono all’ordine del giorno, costretta a un continuo confronto con un destino che non ha scelto, ma che deve vivere scontando sulla propria pelle gli orrori di una realtà ben radicata nella nostra storia, per quanto lontana possa sembrare. Le scene di violenza a cui Dana è esposta non rappresentano solo le crudeltà vissute dalla comunità nera durante la schiavitù, ma una riflettono anche la profonda disumanizzazione degli schiavi. Octavia sottolinea il modo in cui questi individui siano stati ridotti a merce, privati della loro dignità e libertà per essere usati da chi poteva dire di possederli. Ispirato dal continuo alternarsi tra passato e futuro, il lettore è invitato a interrogarsi sulla memoria e sulla necessità di affrontare con coscienza quanto accaduto in tempi passati per poter costruire un domani migliore, consapevole della potente eredità che tali eventi lasciano all’intera umanità. Il terzo capitolo si occuperà della trilogia Xenogenesis, conosciuta anche come Lilith’s Brood, che comprende Dawn, Adulthood Rites e Imago, rispettivamente pubblicati nel 1987, 1988 e 1989. In questa serie, Octavia esplora uno scenario tanto affascinante quanto spaventoso, nel quale l’umanità deve pagare un tributo a una specie aliena: gli Oankali. Questi esseri, giunti sulla Terra in un momento di crisi totale (guerre, epidemie e disastri ambientali), si trovano a dover salvare una popolazione sull’orlo dell’estinzione. Costretti a vestire i panni dell’alterità, gli esseri umani perdono potere decisionale e, per la prima volta, non sono in cima alla catena alimentare. In un contesto così drammatico, gli uomini dovranno affrontare una scelta difficile: accettare di portare i segni del cambiamento sul proprio corpo e, quindi, unirsi geneticamente alla specie degli Oankali, oppure rinunciare a un futuro fertile, eternamente condannati a una vita sterile e senza futuro. Octavia, con questo racconto, evidenzia sia la fragilità della condizione umana che la complessità delle relazioni di potere tra specie diverse. Un elemento particolarmente significativo in questo capitolo è la rottura dei paradigmi tradizionali, come la distinzione tra i sessi. L’autrice mette in discussione le convenzioni consolidate, introducendo la figura degli Ooloi, un terzo sesso che rompe con le nozioni di mascolinità e femminilità. Gli Oankali portano con loro una riflessione sul significato di essere umani, sulla complessità dell’identità e sul prezzo da pagare per la sopravvivenza. Il quarto e ultimo capitolo, invece, esplora la dilogia composta da Parable of the Sower e Parable of the Talent, seguendo prima le avventure di Olamina e poi il destino di sua figlia, Larkin. La specie umana è posta di nuovo sotto giudizio, ma in questo caso la vittima della loro violenza è il pianeta Terra stesso. In un futuro distopico caratterizzato da una crisi climatica devastante, il cambiamento ambientale emerge come vero e proprio personaggio che condiziona le vite degli uomini, costringendoli a cercare rifugio dietro mura protettive per sfuggire all’odio e alla disperazione di chi, emarginato e senza risorse, non ha di che vivere. Butler introduce una nuova storia, nuovi crimini e un nuovo debito da pagare. Questa volta, sono i giovani a dover scontare le conseguenze delle decisioni che gli adulti, egoisti e noncuranti, non sono riusciti a prendere. Anziché agire ed affrontare le sfide del proprio tempo, le generazioni precedenti hanno guardato il mondo crollare sotto il consumismo sfrenato e la mancanza di responsabilità sociale. Dalla narrazione individuale di Olamina emerge un racconto corale, le voci della comunità si riuniscono in un corpo sociale che si fa protagonista per testimoniare le difficoltà vissute in un momento di crisi. Attraverso la figura della protagonista, Butler propone la nascita di una nuova religione, Earthseed, che si distingue per la sua consapevolezza e attivismo. Tale filosofia vuole sfidare il vero colpevole della situazione apocalittica: un modello capitalistico che persegue un interesse individuale, in cui il singolo si arricchisce a discapito della vita altrui. Il lettore, privato di ogni certezza e idolo in cui credere, non potrà che riflettere sull’importanza del cambiamento. Butler esorta a riconoscere che il cambiamento non solo è necessario, ma va abbracciato per sperare in un futuro migliore. Come verrà trattato nel capitolo, la storia diventa un veicolo per portare avanti una forte critica sociale, affinché si possa assumere una visione di resilienza e speranza con cui vedere opportunità di rinascita e trasformazione anche nelle sfide più ardue. Ciascun capitolo si arricchisce di immagini, fotografie, opere d’arte che non vogliono rendere la tesi solo bella a livello estetico, ma anche completare, dal punto di vista visivo, un discorso che non può essere esaurito unicamente attraverso le parole. Per evitare di mancare di rispetto al lavoro degli artisti e di liquidare le immagini come semplici decorazioni secondarie, ho deciso di dedicare una sezione di approfondimento, qui nell’introduzione, per conoscere meglio quei nomi che ho avuto il piacere di scoprire durante la stesura della dissertazione. Partendo da Charlene Komuntale, una delle prime figure che incontreremo nel corso della trattazione, è possibile ammirare ritratti di donne africane nere. L’’illustratrice digitale originaria dell’Uganda si ispira non solo a storie personali, ma anche alle testimonianze di chi la circonda per sovvertire la prospettiva vigente – bianca e maschile – sui ruoli e sui corpi delle donne. Il mondo intimo, tenero e femminile che ne emerge non suggerisce fragilità, ma una forza volta a decostruire le narrazioni patriarcali che la cultura, la religione e la politica innalzano a uniche meritevoli di ascolto. Sulla sua stessa linea d’onda si inserisce Penda Diakité, una giovane artista maliano-americana, che esplora l’identità femminile nera dalla prospettiva di una donna biculturale. Mediante la realizzazione di collage, l’impiego delle più disparate tecniche pittoriche e l’uso di colori vibranti che rimandano alla sua ricca eredità culturale, l’artista ricerca una sintesi tra la tradizione africana e la contemporaneità, proponendo una visione in cui le tradizioni e le esperienze moderne possano fondersi in un dialogo fecondo e dinamico.(4) Molte delle immagini che è possibile ammirare nei capitoli sono realizzate da Wangechi Mutu, un’artista di fama internazionale che rimodella le narrazioni della femminilità attraverso l’uso di molteplici medium. Attraverso immagini stereotipate di madri, vergini e dee, riconfigura il concetto di agency come frutto della molteplicità e delle contraddizioni. Scegliendo di usare il collage, Mutu compie un atto di resilienza e rigenerazione; mescola personaggi inventati, figure storiche, personaggi famosi, animali e piante, uniti assieme tanto da parentele nuove e ibride, quanto da una trasformazione continua in termini di rinascita e reincarnazione, riuscendo così a superare i preconcetti di razza e genere. Un artista al passo con i tempi che, attraverso le sue opere, rappresenta la fusione tra umanità e macchina è Àsìkò. Nato a Londra, ma di origini nigeriane, esplora un tipo di arte che si muove tra fantasia e realtà attraverso l’uso di fotografie, media misti, film e intelligenza artificiale. La sua produzione artistica è influenzata dalla doppia formazione culturale e le opere, frutto di una continua commistione tra le radici nigeriane e l’esperienza europea, mostrano l’estetica africana sotto una luce positiva. Anche Jacolby Satterwhite si distacca per il suo interesse ai temi del fantasy, dei rituali e della libertà. Utilizza istallazioni immersive, realtà virtuali e media digitali per costituire un universo cinematografico unico, popolato da amici e artisti. La sua arte fonde l’illustrazione, la performance, la pittura, la scultura e la fotografia per sovvertire l’arte occidentale e celebrare il mondo queer nero che, nelle sue opere, è libero da oppressioni e discriminazioni. 4 Molti artisti usano la tecnica del collage per avvicinare elementi appartenenti a mondi distanti, in modo tale da rielaborare le identità frammentate. Così facendo, diventa chiara la riflessione sulla memoria storica, attualizzata alla luce della cultura moderna, ma senza sottoporla alla cultura occidentale dominante. Alisha B. Wormsley sfida le concezioni contemporanee della vita americana attraverso le sue opere, rielaborandole secondo una lente matriarcale nera. Nel progetto There Are Black People in the Future, l’artista reimmagina un future per la comunità nera, dove il corpo – torturato e reso schiavo da anni di storia – può finalmente riconquistare dignità. Seguendo lo stesso intento, Kenturah Davis crea ritratti intimi della Black America in cui unisce disegno e scrittura. Il ruolo di quest’ultima è parte della riflessione di Davis sul modo in cui il linguaggio costituisce le varie identità. Ulteriore caratteristica, oltre le immagini nate dalla sovrapposizione di parole scritte a mano, è la rappresentazione di persone in movimento per restituire la complessità e la molteplicità dell’identità nera, dinamica e mutevole sotto ogni prospettiva. L’arte di Jean David Knot, invece, si interseca agli scritti di Octavia Butler perché esamina alcune tematiche trattate dall’autrice americana: la schiavitù, lo sfruttamento delle risorse naturali e le conseguenze non solo umane, ma anche ambientali della coltivazione del cotone. Le sue opere fanno eco al pensiero di Denise Ferreira da Silva nel modo in cui connette l’ascesa del capitalismo allo sfruttamento del lavoro africano. La sua produzione artistica, difatti, vuole compensare la mancanza di visibilità di chi lavora nell’ombra, mai ricompensato dal modello economico attuale. In ultimo, ma non per importanza, ho il piacere di avvicinare il lettore a una serie di artisti che, nonostante provengano da contesti geografici diversi, condividono alcune tematiche importanti. Géraldine Tobe, originaria del Congo, si diversifica per l’uso creativo che fa del fumo nella sua pittura, trascendentale e legata al mondo immateriale. Dalle riflessioni sulla spiritualità e il colonialismo emergono i fantasmi del passato dell’artista, i cui traumi sono dovuti all’accusa di stregoneria e a un’infanzia violenta. Emma Odumade, dalla Nigeria, realizza opere con l’intento di recuperare il passato della comunità nera attraverso l’uso di immagini storiche e moderne, fotografie di concerti e fonti d’archivio. In un dialogo continuo tra passato, presente e futuro, Odumade propone una riflessione sul cambiamento delle relazioni interpersonali all’interno del contesto sociale che, come dimostrato dalla storia, non resta mai lo stesso. Sempre originario della Nigeria è Eva Obodo, artista che, utilizzando materiali come fibra e carbone, rievoca tematiche legate allo sfruttamento delle risorse naturali e allo sviluppo delle infrastrutture in Nigeria. Le opere che Obodo realizza evocano le complesse dinamiche socio-economiche che condizionano la cultura contemporanea con un chiaro riferimento alle connessioni che l’individuo istaura con la comunità. Mallory Lowe Mpoka e Moustapha Baidi Oumarou sono due artisti originari del Camerun. Mpoka è unǝ artistǝ queer che realizza opere attraverso la commistione di elementi diversi (fotografie, ceramiche, tessuti) per ripensare temi quali migrazione, traumi culturali, memoria e colonialismo ambientale. L’arte di Baidi, invece, richiede un atto politico al pubblico che, prescindendo dall’esperienza personale, la classe sociale o l’origine geografica, deve guardare il mondo da una nuova prospettiva, decentrata. Le sue opere, contenenti messaggi di felicità, fratellanza e famiglia, sono come uno specchio che riflettono un’immagine idealizzata del mondo, in cui lo spettatore diventa l’attore, responsabile di provocare il cambiamento necessario al raggiungimento di tale utopia. Infine, Ousmane Ninag, dal Senegal, mette in discussione il potere e le gerarchie. Nelle sue opere, usa spesso figure antropomorfiche – animali soprattutto – che mostrano una chiara fusione tra uomini e natura, esprimendo il messaggio di armonia e coesione che tanto Octavia quanto studiose come Donna Haraway e Anna Tsing vogliono far arrivare al pubblico. A tal proposito, l’artista invita lo spettatore a riflettere sulla condizione in cui versa il mondo, sulla responsabilità umana dinanzi tanta devastazione e sulla ricerca di nuove soluzioni e prospettive.  
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